Pratiche contemplative nel trattamento delle dipendenze

Stefano Canali

Negli ultimi anni, stiamo assistendo a un’accelerazione senza precedenti della ricerca sperimentale sulle pratiche contemplative e il loro impatto terapeutico. Sviluppate da antiche tradizioni meditative, per adattarle a forme di training cognitivi e comportamentali più o meno standardizzati, queste pratiche costituiscono un insieme piuttosto variegato di tecniche diverse, ognuna volta a sviluppare stati mentali, attitudini, atteggiamenti e competenze differenti, tra cui, principalmente, l’attenzione focalizzata, la sensibilità e la consapevolezza dei processi somatici e dei contenuti di coscienza, la non reattività alle emozioni, il controllo inibitorio degli impulsi e degli automatismi, le funzioni prosociali, come l’empatia e la compassione.

Tra queste pratiche la più presente nel panorama della ricerca e dell’utilizzo in clinica è sicuramente la mindfulness, la quale peraltro costituisce la base di addestramento che accomuna quasi tutte le altre pratiche contemplative. Nel training mindfulness si esercita l’attenzione aperta mantenendo l’osservazione deliberata, curiosa, ma distaccata e non giudicante di tutto ciò che entra nel dominio della coscienza momento per momento. Si tratterebbe quindi di un addestramento a una forma di attenzione e consapevolezza delle dinamiche interne della mente che non danno seguito a reattività, ma sviluppano anzi defusione e distanziamento e quindi capacità di confrontarsi con stimoli innesco senza espressione in forma sregolata emozioni o azioni riflesse e impulsive: una abilità fondamentale nella prevenzione e nella cura delle dipendenze. Inizialmente concentrata sulle possibili applicazioni delle pratiche basate sulla mindfulness nel trattamento del dolore cronico e dell’ansia, l’attenzione della ricerca clinica si è progressivamente spostata anche verso i disturbi da uso di sostanze (DUS) e le dipendenze comportamentali.

Questo nuovo straordinario interesse è riflesso nell’incremento esponenziale del numero di pubblicazioni scientifiche degli ultimi dieci anni. Ciò a testimonianza del crescente riconoscimento dell’efficacia che queste pratiche possono avere come strumento per l’operatore dei servizi delle dipendenze, sia come strumento di intervento clinico, sia come mezzo per allenare la risposta empatica, l’atteggiamento non giudicante e per gestire lo stress correlato al lavoro. Ad oggi, in clinica delle dipendenze sono stati usati e valutati sperimentalmente numerosi protocolli manualizzati basati sulla mindfulness, tra cui i corsi di meditazione Vipassana, la Mindfulness-Based Stress Reduction (MBSR), la Mindfulness-Based Cognitive Therapy (MBCT), la Mindfulness-Based Relapse Prevention (MBRP), la più recente Mindfulness-Oriented Recovery Enhancement (MORE). Le pratiche contemplative costituiscono una parte importante anche di altri interventi per il trattamento dei disturbi da uso di sostanze, come l’Acceptance and Commitment Therapy – terapia dell’accettazione e dell’impegno – (ACT), la terapia dialettico comportamentale – Dialectical Behavior Therapy (DBT) –, la terapia dello schema spirituale del Sé – Spiritual Self- Schema (3-S). I numerosi studi sperimentali e di revisione oggi disponibili suggeriscono che le pratiche contemplative sono in grado di ridurre lo stress percepito, migliorare la regolazione emotiva, ridurre il craving e le ricadute. Queste interessanti evidenze comportamentali sono correlate ai risultati delle ricerche di neuroimmagine sulle pratiche contemplative, le quali sembrano evidenziare che i training basati sulla mindfulness possono ristrutturare le reti neurali coinvolte nell’attenzione, nel controllo degli impulsi, nella percezione soggettiva e nella reattività al craving, nella regolazione emotiva e nella metacognizione tutti elementi chiave nel recupero dalle dipendenze.

L’entusiasmo straordinario che si sta diffondendo sulle possibilità applicative sembra tuttavia ancora prematuro e ingiustificato. Le ricerche attuali, pur fornendo indicazioni preliminari di efficacia degli interventi basati sulla mindfulness, evidenziano la necessità di approfondire gli studi sui meccanismi neurobiologici e psicologici coinvolti, la cui comprensione è ancora piuttosto vaga e talora controversa. Soprattutto sembra evidente l’esigenza di applicare standard metodologici più rigorosi. Esiste una straordinaria difformità nei protocolli sperimentali, nella loro progettazione, conduzione, sviluppo nel tempo, attuazione, negli strumenti e modi di erogazione delle pratiche e dell’addestramento dei pazienti coinvolti, nelle misurazioni, nella raccolta e nell’analisi dei dati. Tutto ciò rende spesso impossibile confrontare ricerche diverse anche per interventi basati su una stessa pratica contemplativa. Permane inoltre una grave carenza di studi longitudinali di alta qualità che esaminino gli effetti a lungo termine di queste pratiche e il loro impatto sulla ricaduta, una questione centrale nel trattamento delle dipendenze. Sebbene le pratiche basate sulla mindfulness abbiano dimostrato di ridurre il craving e di migliorare la regolazione emotiva, la notevole variabilità individuale nella risposta a questi interventi sottolinea da un lato l’urgenza di rilevare e misurare più accuratamente e quindi isolare meglio la presenza dell’effetto placebo e dall’altro la necessità di personalizzare il trattamento, anzi di analizzare preventivamente l’opportunità di usare l’intervento solo su pazienti che presentano determinati profili psicologici e certe sintomatologie. Da un punto di vista clinico, l’integrazione degli approcci basati sulla mindfulness nel trattamento standard delle dipendenze richiede un’attenzione rigorosa alla formazione degli operatori, alla fedeltà dell’intervento e alla misurazione degli esiti.

L’adozione di standard metodologici elevati e l’uso di protocolli ben definiti e replicabili sono essenziali per avanzare nella ricerca e nella pratica clinica in questo campo. Questo numero di Medicina delle Dipendenze punta a un’esplorazione critica delle pratiche basate sulla mindfulness, evidenziando sia il loro potenziale terapeutico che gli aspetti problematici della loro applicazione clinica. Ci auguriamo che i lavori qui pubblicati possano promuovere un maggiore e più proficuo dialogo tra ricerca e pratica clinica anche in Italia. Alcuni degli autori di questo numero sono coinvolti nell’avvio di una ricerca originale sulle pratiche contemplative nel trattamento delle dipendenze condotta con strumenti digitali sia per l’erogazione dei training sia per le misure delle variabili psicologiche e cliniche raccolte tramite smartphone nell’ambiente naturale e nei momenti di vita quotidiana dei pazienti coinvolti. I servizi interessati a partecipare alla ricerca e avere una formazione per queste pratiche possono scrivere al mio indirizzo email.

Stefano Canali
Stefano Canali